Da alcuni anni non mi concentravo su me stessa, non percepivo più di cosa il mio essere aveva bisogno e passavo tutto il tempo a occuparmi delle esigenze degli altri: familiari, amici e lavoro. La quarantena forzata è un prezioso momento di riflessione e recupero dei miei bisogni anche se l’essere costretti in casa inizia a pesare sulla mia mente.
Una delle mie più grandi paure è essere “costretta” nel senso di: contenuta, stipata o ingabbiata.
Da sempre sono rispettosa delle leggi perché ho paura di essere arrestata e in generale sto alla larga da tutto quello che avrebbe un risvolto costrittivo per la mia vita.
Voi direte: «Ti serve un buon analista!», certo soprattutto dopo questa quarantena che sta mettendo a dura prova il mio sistema nervoso.
Ultimamente mi alzo al mattino e il mio primo pensiero va, senza filtri, alle pagine di “Un uomo” di Oriana Fallaci che descrivono la prigionia di Alekos Panagulis in una “tomba di cemento” per ben cinque anni. La sensazione di oppressione – che quelle pagine mi avevano lasciato addosso quando avevo letto il libro da adolescente – negli anni si era affievolita ma ora dopo 35 giorni di quarantena, in tre persone in 90 metri quadrati di appartamento, tutto è tornato prepotente dentro di me.
Diamo tutto per scontato quando siamo liberi.
Io do per scontata la mia camminata mattutina. Ogni mattina accompagno Luca a scuola alle 8.15 e poi cammino per un’ora e come uno scanner osservo le persone che incrocio, analizzo i loro gesti, le abitudini e le nevrosi e inconsapevolmente immagazzino dei dati nella mia mente. Un bagaglio di imput che mi tornano utili per affrontare la giornata. Faccio questo rigorosamente tutte le mattine da 15 anni – a prescindere che io sia a Padova, a Roma o in giro da qualche altra parte – eppure solo ora in quarantena capisco che questa abitudine è per me vitale più dello stesso bere, mangiare o dormire.
Ma ora non posso fare nulla. Devo stare ferma.
Allora chiudo gli occhi cercando di riprodurre le sensazioni che provo camminando e invece la mia mente va diretta verso immagini del mare profondo che si infrange sugli scogli.
Già, io sogno da sempre di vivere in solitaria in una casetta fronte mare, risistemata alla meno peggio, con un orto e un albero di pero a fare ombra all’ingresso per avere un angolo dove scrivere e leggere nelle ore più calde. La porta sempre aperta per chi vuole venire a trovarmi senza preavviso ma con il patto di non fermarsi perché amo gli amici, il loro calore intorno a tavole imbandite con buon cibo ma ho bisogno di tempi di silenzio per vivere, tempi di solitudine profonda.
Così con questi pensieri in mente con sincerità, come faccio di solito, ho parlato a Luca mentre mangiavamo il budino del pomeriggio e gli ho detto:
«Sai Luca, mamma sta pensando molto durante questa quarantena. Ho 44 anni e sto pensando che è giunta l’ora di realizzare un sogno che ho da tanto: vivere da sola al mare, trovare un lavoro al mattino e poi il pomeriggio leggere in silenzio oppure scrivere. Credo che dopo questa quarantena mi impegnerò per realizzare il mio sogno. È giunta l’ora!».
Luca, 8 anni, mi ha guardata con in bocca ancora il cucchiaino di budino, ha alzato gli occhi in su dietro gli occhiali, ha fatto una smorfia di chi sta elaborando una soluzione e mi ha detto:
«Bè, puoi sempre andare tutti i giorni in piscina qui a Padova e poi a 60 anni vai a vivere al mare e fai il bagnino!».
Secondo voi mi ha lanciato un messaggio?